Autore: Bruno Sfogliarini – Professore Data Analysis IULM Milano

Domenica mattina. Sveglia troppo presto. Viaggio in auto. Guida papà. Campo di calcio bagnato di rugiada. Cinquanta persone. Tutte vestite di bianco. Semafori e fischietto. Binocolo appeso alla cintura. Vediamo se indovinate di cosa sto parlando?

Alcuni, non molti tra voi, avranno capito che si tratta di una gara di tiro con l’arco. Più precisamente di una gara FITA in un giorno, cioè un torneo dove tutti tirano tutte le frecce a quattro distanze diverse in sequenza decrescente (90, 70, 50 e 30 metri per i maschietti) e chi fa più punti in totale vince. NON una gara come quella che si vede alla tv durante le Olimpiadi.

Ecco, molte domeniche della mia vita fino circa ai trent’anni, partendo da circa quattordici, sono passate così. Almeno fino alle quattro, cinque di pomeriggio, poi liberi tutti e via di corsa dalla fidanzata o al campetto di basket o a studiare per un esame. La gara della domenica rappresentava, come giusto che fosse, il fine ultimo di tutte le ore di allenamento fisico e di condizionamento psicologico a cui mi sottoponevo praticamente ogni giorno.

Sì perché l’arco non è solo uno sport in senso stretto, ma diventa una disciplina di vita. Riuscire a mantenere la concentrazione, la fiducia in sé stessi, il rilassamento dei muscoli anteriori del busto, la corretta respirazione, la valutazione del vento per correggerlo…insomma sapersi controllare al punto da eseguire la stessa identica meccanica di tiro per 144 volte più 6 di prova. Unica variante la distanza del bersaglio.

Infatti si partiva dalla più lontana, i novanta metri, che io ho sempre sofferto perché ero ancora mezzo addormentato e perché con i materiali dell’epoca per sperare di prendere il paglione bisognava alzare parecchio l’angolo di tiro. Poi però arrivavano i settanta metri. Allora lì sì che venivano fuori le ore di allenamento e di dedizione costante e arrivavano i punti.

Così come la gara è il momento della verità per lo sportivo, l’applicazione (o “deployment” in inglese) è il momento della verità del processo di Data Science.

L’obiettivo del deployment è rendere operativo il modello sviluppato e validato. In altre parole, si deve “mettere in produzione” il modello, connettendo i flussi dati in input e in output (pipeline) a un’interfaccia API aperta, per esempio con un servizio Web di Azure Machine Learning. È consigliabile tracciare dati di telemetria e monitoraggio del modello di produzione e della pipeline di dati distribuita. Questa procedura consente di segnalare lo stato del sistema e risolvere i problemi successivi.

I risultati prodotti dalla fase di deployment sono:

  • Dashboard di stato che visualizza l’integrità del sistema e le metriche chiave
  • Un report di modellazione finale con i dettagli di distribuzione
  • Un documento finale sull’architettura della soluzione

A valle del deployment si trova poi l’ultima fase del processo TDSP, quella dell’accettazione del Cliente che ha l’obiettivo di finalizzare i risultati del progetto. Questa fase comprende due attività principali:

  • Convalida del sistema: verificare che il modello e la pipeline distribuiti soddisfino le esigenze del Cliente
  • Consegna del progetto: consegnare il progetto all’entità che eseguirà il sistema nell’ambiente di produzione

Il prodotto di questa fase finale è il report di uscita del progetto per il Cliente. Questa relazione tecnica contiene tutti i dettagli del progetto che sono utili per imparare come utilizzare il sistema.

Siamo così arrivati in fondo al processo di data science, tra il serio e il faceto, tra il lavoro di oggi e i ricordi della gioventù, tra la fine del secondo millennio e l’avvento dell’intelligenza artificiale. Per me ha voluto dire, tra l’altro, passare dal regolo calcolatore all’IoT o se preferite dall’Assembler a Knime in una trentina d’anni.

Come dice Pippo a suo figlio Max (indovinate in che film…) “Metà del bello sta nel viaggio”. L’altra metà sta nel centrare il bersaglio. Ooops scusate, l’obiettivo!

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